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Il servizio di mensa: quando è obbligatorio e come gestirlo
Analisi dell'art. 68 CCNL Aiop Aris per il personale non medico e della giurisprudenza in materia.
Sonia Gallozzi, consulente giuslavorista Sede nazionale
L’art. 68 del CCNL AIOP-ARIS per il personale non medico, prevede espressamente che “È fatto obbligo alle Strutture con più di 160 dipendenti di istituire il servizio di mensa; sono fatte salve le situazioni già esistenti. Nelle predette Strutture, laddove i servizi prevedano particolari articolazioni di orario, il datore di lavoro provvederà a garantire l’esercizio della mensa anche con modalità sostitutive (quali ad esempio: buono pasto, cestino da consumare in luogo idoneo, ecc.) che, comunque, non debbono prevedere indennità monetizzabile. Non usufruisce di detto servizio il personale non in servizio. Il pasto va consumato al di fuori dell’orario di lavoro”. E’ inoltre previsto dal citato art. 68 che il dipendente che fruisca del pasto fornito dalla struttura, debba contribuire con una somma pari ad € 1,55 per ogni pasto.
Il disposto contrattuale pone dunque quale “obbligo” l’istituzione del servizio mensa per tutte quelle strutture che abbiano in organico più di 160 dipendenti, specificando che, in determinati ipotesi, possano essere disposte “modalità sostitutive” e, in linea con la legge, che il tempo per la consumazione del pasto non rientra nell’orario di lavoro.
Il primo elemento da esaminare riguarda la platea di destinatari, posto che l’art. 68 si limita a specificare che non ha diritto al vitto il “personale non in servizio”.
All’uopo corre innanzitutto chiarire che il diritto alla mensa è collegato al diritto alla pausa, disciplinato dal Decreto Legislativo 8 aprile 2003, n. 66, articolo 8 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro) il quale stabilisce che il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa qualora l'orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto. La durata e le modalità della pausa sono stabilite dalla contrattazione collettiva ed in mancanza il lavoratore ha diritto ad un intervallo non inferiore a 10 minuti.
Presupposto, dunque, perché il lavoratore abbia diritto al servizio mensa è che il suo orario giornaliero sia superiore a sei ore. In tal caso il tempo impiegato per il consumo del pasto è rilevato con i normali mezzi di controllo dell’orario ed il dipendente dovrà timbrare in uscita ed in entrata (non essendo orario di lavoro e quindi non retribuito) e la pausa non potrà essere – come detto - inferiore a dieci minuti.
Sul punto ha poi specificato la giurisprudenza di legittimità che il lavoratore turnista ha diritto al buono pasto a prescindere dal fatto che la pausa per il pranzo avvenga in fasce orarie normalmente destinate alla consumazione del pasto oppure in altre fasce orarie in considerazione alla specifica articolazione dell’orario su turni. Difatti ha specificato la Corte «l’attribuzione del buono pasto, in quanto agevolazione di carattere assistenziale che, nell’ambito dell’organizzazione dell’ambiente di lavoro, è diretta a conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del dipendente, al fine di garantirne il benessere fisico necessario per proseguire l’attività lavorativa quando l’orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente previsto per la fruizione del beneficio, è condizionata all’effettuazione della pausa pranzo che, a sua volta, presuppone, come regola generale, solo che il lavoratore, osservando un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore, abbia diritto ad un intervallo non lavorato» (Cass. Sez. Lav.. n. 5547/21).
Un ulteriore aspetto da esaminare afferisce poi le modalità concrete di erogazione del vitto, posto che sul punto l’art. 68 rimanda all’”istituzione” del “servizio di mensa” o “laddove i servizi prevedano particolari articolazioni di orario” alla garanzia dell’”esercizio della mensa anche con modalità sostitutive”.
Sul punto è dirimente la pronuncia della Cassazione n. 8470/23, che, nel ravvisare il diritto alla mensa quale “posizione soggettiva dei dipendenti di strutture cui si applica l’art. 68 CCNL cit. direttamente tutelata dal contratto collettivo ed immanente al rapporto di lavoro subordinato”, ha previsto che possano essere istituite “modalità sostitutive” “in caso di ricorrenza di particolari situazioni che non permettano al prestatore di interrompere il servizio per recarsi a mensa”, quale appunto la continuità assistenziale.
Tra le modalità sostitutive, oltre a quelle indicate esemplificamente nel CCNL, ed ossia il buono pasto (che, rammentiamo, non concorre alla formazione del reddito del dipendente nel limite di 4 euro per quelli cartacei e di 8 per quelli elettronici) ed il cestino da consumare in luogo idoneo, il vitto potrà essere erogato anche presso ristoranti o bar con cui il datore ha stipulato una convenzione (c.d. mensa diffusa) tramite l’attribuzione ai dipendenti di card elettroniche o app create ad hoc, che, a differenza dei ticket, non costituiscono titoli di credito, in quanto consentono una sola prestazione giornaliera, limitata ai giorni di effettiva presenza in servizio con impossibilità di posticiparne la fruizione del servizio.
Si ribadisce, infine, che tale servizio non è in alcun modo sostituibile con un’indennità monetizzabile, trattandosi di un’agevolazione di carattere assistenziale e non retributivo.