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Infezioni correlate all’assistenza: la Cassazione precisa gli oneri probatori gravanti sulla struttura sanitaria
Cass. Civ. sezione III, sentenza 3 marzo 2023, n.6386
Avv. Giuseppe De Marco
La terza sezione civile della Cassazione, con la sentenza del 3 marzo 2023 (*), richiama i principi di diritto da essa affermati negli ultimi anni in tema di infezioni correlate all’assistenza ed elenca gli oneri probatori gravanti sulla struttura sanitaria.
Già la prima precisazione dei giudici, in relazione alla natura della responsabilità fatta valere dai parenti del paziente, è molto rilevante. Il principio è che l'autonoma pretesa risarcitoria vantata dai congiunti del paziente per i danni ad essi derivati dall'inadempimento dell'obbligazione sanitaria si colloca nell'ambito della responsabilità extracontrattuale. Come di recente ricordato dalla stessa Corte (da ultimo, Cass. n. 11320 del 2022; v. anche Cass. n. 21404 del 2021), il rapporto contrattuale tra il paziente e la struttura sanitaria o il medico non produce, di regola, effetti protettivi in favore dei terzi, perché, fatta eccezione per il circoscritto campo delle prestazioni sanitarie afferenti alla procreazione, trova applicazione il principio generale di cui all'art. 1372 c.c., comma 2.
Con riferimento al modello di ricostruzione del nesso causale, la Corte ribadisce un altro principio fondamentale, non tenuto presente nel caso di specie dalla Corte di Appello di Milano: se è ben vero che la prova del nesso causale tra il comportamento dei sanitari e l'evento dannoso deve essere fornita da chi agisce per il risarcimento dei danni, essa deve essere fornita in termini probabilistici, e non di assoluta certezza. La conclusione cui la Corte d'Appello è arrivata, laddove ha escluso sia stata raggiunta la prova sul nesso causale (in quanto, pur ritenendo accertata l'avvenuta contrazione dell' infezione nosocomiale, la Corte d'Appello si diffonde nell'affermare che, anche se essa fosse stata trattata immediatamente con terapia antibiotica, non è certo che la signora sarebbe guarita e non è certo quindi che la sua morte sia dovuta alla condotta dei sanitari) è viziata nella misura in cui adotta un criterio di giudizio errato, quello della certezza del rapporto di causa-effetto, e non il modello di ricostruzione del nesso causale fondato sul giudizio di probabilità logica, o del più probabile che non, da utilizzare al fine di verificare la sussistenza del nesso causale tra condotta ed evento di danno.
In particolare, la Cassazione ha recentemente affermato (Cass. sez. III 23/02/2021, n. 4864) che, in applicazione dei principi sul riparto dell'onere probatorio in materia di responsabilità sanitaria, secondo cui spetta al paziente provare il nesso di causalità fra l'aggravamento della situazione patologica (o l'insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre alla struttura sanitaria compete la prova di aver adempiuto esattamente la prestazione o la prova della causa imprevedibile ed inevitabile dell' impossibilità dell'esatta esecuzione, con riferimento specifico alle infezioni nosocomiali, spetterà alla struttura provare: 1) di aver adottato tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e dalle leges artis, al fine di prevenire l'insorgenza di patologie infettive; 2) di aver applicato i protocolli di prevenzione delle infezioni nel caso specifico. Di tal che la relativa fattispecie non integra un'ipotesi di responsabilità oggettiva (Cass. sez. III, 15/06/2020, n. 11599), mentre, ai fini dell'affermazione della responsabilità della struttura sanitaria, rilevano, tra l'altro, il criterio temporale - e cioè il numero di giorni trascorsi dopo le dimissioni dall'ospedale - il criterio topografico - i.e. l'insorgenza dell'infezione nel sito chirurgico interessato dall'intervento in assenza di patologie preesistenti e di cause sopravvenute eziologicamente rilevanti, da valutarsi secondo il criterio della cd. "probabilità prevalente" - e il criterio clinico – ogni volta che, in ragione della specificità dell’infezione, sarà possibile verificare quali, tra le necessarie misure di prevenzione, era necessario adottare.
La sentenza, infine, precisa gli oneri probatori gravanti sulle strutture sanitarie.
A fronte della prova presuntiva della relativa contrazione delle infezioni in ambito ospedaliero, ed ai fini della dimostrazione di aver adottato, sul piano della prevenzione generale, tutte le misure utili alla prevenzione delle infezioni stesse - ed anche al fine di fornire al CTU la documentazione necessaria - gli oneri probatori gravanti sulla struttura sanitaria devono ritenersi, in linea generale:
a) l'indicazione dei protocolli relativi alla disinfezione, disinfestazione e sterilizzazione di ambienti e materiali;
b) l'indicazione delle modalità di raccolta, lavaggio e disinfezione della biancheria;
c) l'indicazione delle forme di smaltimento dei rifiuti solidi e dei liquami;
d) le caratteristiche della mensa e degli strumenti di distribuzione di cibi e bevande;
e) le modalità di preparazione, conservazione ed uso dei disinfettanti;
f) la qualità dell'aria e degli impianti di condizionamento;
g) l'attivazione di un sistema di sorveglianza e di notifica;
h) l'indicazione dei criteri di controllo e di limitazione dell'accesso ai visitatori;
i) le procedure di controllo degli infortuni e delle malattie del personale e le profilassi vaccinali;
j) l'indicazione del rapporto numerico tra personale e degenti;
k) la sorveglianza basata sui dati microbiologici di laboratorio;
l) la redazione di un report da parte delle direzioni dei reparti da comunicare alle direzioni sanitarie al fine di monitorare i germi patogeni-sentinella;
m) l'indicazione dell'orario della effettiva esecuzione delle attività di prevenzione del rischio.
Quanto agli oneri soggettivi, il dirigente apicale avrà l'obbligo di indicare le regole cautelari da adottarsi ed il potere-dovere di sorveglianza e di verifica (riunioni periodiche/visite periodiche), al pari del CIO; il direttore sanitario quello di attuarle, di organizzare gli aspetti igienico e tecnico-sanitari, di vigilare sulle indicazioni fornite (D.P.R. n. 128 del 1069, art. 5: obbligo di predisposizione di protocolli di sterilizzazione e sanificazione ambientale, gestione delle cartelle cliniche, vigilanza sui consensi informati); il dirigente di struttura complessa (l'ex primario), esecutore finale dei protocolli e delle linee guida, dovrà collaborare con gli specialisti microbiologo, infettivologo, epidemiologo, igienista, ed è responsabile per omessa assunzione di informazioni precise sulle iniziative di altri medici, o per omessa denuncia delle eventuali carenze ai responsabili;
Quanto ai compiti del medico legale, questi indagherà sulla causalità tanto generale quanto specifica, da un lato escludendo, se del caso, la sufficienza delle indicazioni di carattere generale in ordine alla prevenzione del rischio clinico, dall'altro evitando di applicare meccanicamente il criterio del post hoc - propter hoc, esaminando la storia clinica del paziente, la natura e la qualità dei protocolli, le caratteristiche del micro organismo e la mappatura della flora microbica presente all'interno dei singoli reparti: al CTU andrebbe, pertanto, rivolto un quesito composito, specificamente indirizzato all'accertamento della relazione eziologica tra l'infezione e la degenza ospedaliera in relazione a situazioni:
a) di mancanza o insufficienza di direttive generali in materia di prevenzione (responsabilità dei due direttori apicali e del CIO);
b) di mancato rispetto di direttive adeguate e adeguatamente diffuse (responsabilità del primario e dei sanitari di reparto), di omessa informazione della possibile inadeguatezza della struttura per l'indisponibilità di strumenti essenziali (Cass. 6138/2000; Cass. 14638/2004), di ricovero non sorretto da alcuna esigenza di diagnosi e cura ed associato ad un trattamento non appropriato (C. app. Milano 369/2006).
La Cassazione pertanto ha cassato la sentenza, rinviando la causa alla Corte d'Appello di Milano in diversa composizione, che, in applicazione dei principi di diritto sinora esposti, dovrà quindi rinnovare il proprio giudizio, verificando se, sulla base degli elementi allegati, possa o meno ritenersi “più probabile che non” che, a causa del comportamento colposo dei sanitari, ovvero, e più specificamente, della obiettiva contrazione di infezione in ambito nosocomiale, sia derivata la morte della paziente, imputabile alla responsabilità della struttura sanitaria (che può fondarsi sulla responsabilità dei sanitari all' interno di essa a diverso titolo operanti, ma può̀ essere dovuta a carenze sue proprie, autonome dall'operato dei sanitari).
(*)
I parenti di una signora defunta convenivano in giudizio l’ospedale, chiedendo il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale subito dai medesimi a seguito della morte della signora, dovuta a negligenza del personale sanitario e sopravvenuta infezione nosocomiale.
Gli attori esponevano che la paziente ricoverata in ospedale per un intervento oculistico programmato, cadeva da una sedia all'interno della propria stanza d'ospedale e riportava un trauma contusivo nonostante il manifesto dolore, la presenza di rialzi febbrili ed indici infiammatori, la stessa era ugualmente stata sottoposta all'intervento chirurgico all'occhio destro per il quale era stata ricoverata e dimessa il giorno seguente in stato non febbrile. A fronte del ripresentarsi persistente della febbre e della persistenza dei dolori, la paziente veniva nuovamente ricoverata nella medesima struttura sanitaria, a distanza di pochi giorni dal primo ricovero, e, accertata la presenza di una infezione da staphiloccoccus aureus, trattata con terapia antibiotica, decedeva in ospedale.
Il Tribunale rigettava la domanda: accertava il comportamento negligente e imperito dei medici, ma escludeva che potesse affermarsi con certezza la possibilità di sopravvivenza della paziente se fosse stata adeguatamente curata.
La sentenza veniva confermata integralmente dalla Corte di Appello di Milano, secondo cui "non è stata raggiunta la prova che il decesso della sig. F.F. sia da porre in relazione alla colpa dei sanitari". In particolare, il giudice d'appello valorizzava e condivideva le affermazioni dei c.t.u., secondo le quali non si poteva affermare che la prescrizione di antibioticoterapia empirica, quindi non mirata, avrebbe certamente evitato la sepsi e il decesso.