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Legittimo il licenziamento per il dipendente che non ha rispettato ordinanza regionale su emergenza epidemiologica
Corte di Appello di Roma – Sez. Lavoro – Sentenza n. 296 del 27 gennaio 2023
Con la sentenza in commento la sezione Lavoro della Corte di Appello di Roma è tornata ad affrontare il caso di una dipendente a tempo parziale di una R.S.A. laziale, da quest’ultima licenziata per non aver ottemperato a quanto disposto dall’Ordinanza della Regione Lazio n. n. 34 del 18 aprile 2020 che imponeva per il “personale operante nelle strutture territoriali (residenziali e semiresidenziali) sanitarie, sociosanitarie e socio assistenziali” di “svolgere la propria attività lavorativa esclusivamente all’interno di una singola struttura o, qualora la struttura sia dotata di più stabilimenti, esclusivamente all’interno del medesimo stabilimento“, ciò al fine di limitare la diffusione del contagio e la consequenziale insorgenza di cluster che avrebbero investito soggetti quanto mai fragili sia in ragione dell’età anagrafica media che del loro stato di salute.
Nello specifico, si appurava che la dipendente, benchè sensibilizzata a tale principio di esclusività dal proprio datore di lavoro, disattendendo le disposizioni regionali nonché aziendali, in piena vigenza dell’ordinanza (18.04.2020/16/06/2021), aveva prestato e continuava a prestare attività fisioterapica ed osteopatica presso un Centro per l’età evolutiva nonchè presso uno Studio fisioterapico.
Impugnava la cennata risoluzione la lavoratrice, assumendo, da un lato, di non aver posto con la propria condotta in pericolo la salute dei pazienti della R.S.A., non avendo essa mai contratto il Covid-19 e, dall’altro, fornendo una diversa interpretazione della norma regionale, secondo cui questa avrebbe solo vietato di non prestare attività in “analoga struttura”, quindi consentendo prestazioni in centri ed ambulatori, diversi dalle R.S.A..
Il Tribunale, in prima fase, riteneva legittima l’operata risoluzione, sul presupposto che il dato testuale della norma (ed ossia che il personale operante nelle RSA, come quella gestita dalla società resistente, avesse l'obbligo di svolgere la propria attività lavorativa "esclusivamente all'interno di una singola struttura") fosse “di per sé non ambiguo e non necessitante di interpretazione”. Tuttavia, in fase di opposizione, il Giudice, ribaltando quanto deciso nella fase sommaria, forniva una diversa interpretazione della norma regionale e, statuendo che l’esclusiva fosse limitata al solo settore residenziale e socio- sanitario/socio-assistenziale, ben potendo gli operatori di quest’ultimo lavorare presso altre e diverse strutture (es. ospedaliere...), dichiarava il licenziamento illegittimo, disponendo la reintegra della lavoratrice oltre al pagamento dell’indennità risarcitoria.
La R.S.A., impugnava in Corte di Appello tale pronuncia, assumendo l’erroneità dell’interpretazione normativa fornita, e ne chiedeva la riforma.
I Giudici di secondo grado hanno rilevato preliminarmente che “la questione centrale riguarda l’estensione del divieto per il personale operante nelle strutture residenziali e semiresidenziali sanitarie, socio-sanitarie o socio- assistenziali, vale a dire se esso interessi, come sostenuto dalla società reclamante e come ritenuto anche dall’ordinanza sommaria, non la sola attività svolta all’interno di strutture di tale specie, ma in generale tutta l’attività di tale personale, che avrebbe dovuto, in questa prospettiva, essere svolta all’interno di un’unica struttura. Secondo la ricostruzione seguita dalla lavoratrice e fatta propria dalla sentenza qui impugnata, il riferimento al concetto di “struttura” riguarderebbe invece le sole strutture residenziali e semiresidenziali sanitarie, socio-sanitarie o socio-assistenziali; pertanto, l’obbligo per il personale in questione sarebbe stato solamente quello di non svolgere attività lavorativa presso plurime strutture residenziali e semiresidenziali sanitarie, socio- sanitarie o socio-assistenziali, nel novero delle quali non rientrano pacificamente i centri […] e […]”.
Orbene, la Corte, sposando integralmente la tesi della R.S.A., ha ritenuto come dall’Ordinanza della Regione Lazio n. 34 del 18 aprile 2020 “risulti chiara LA VOLONTÀ DI IMPEDIRE CHE IL PERSONALE IN SERVIZIO PRESSO AZIENDE SANITARIE, STRUTTURE SANITARIE, SOCIOSANITARIE E SOCIOASSISTENZIALI PRESTASSE SERVIZIO CONTEMPORANEAMENTE IN PIÙ LUOGHI, indicati con il generico termine “struttura”, precisando che: “con tale dizione il legislatore regionale non ha dunque inteso riferirsi alle sole strutture ospedaliere e territoriali, socio sanitarie e socio assistenziali residenziali o
semiresidenziali, perché in tale prospettiva l’obiettivo di “limitare al massimo i contatti
sociali con l’esterno” da parte del personale delle strutture stesse non si sarebbe affatto
ottenuto se ad esso fosse stato consentito lo svolgimento di un’indiscriminata e
incontrollata attività lavorativa in altre “strutture” diverse da quelle presso le quali si
trovava ad operare”.
Per tali motivi, i Giudici hanno ritenuto che “la condotta della […] va qualificata come gravemente imprudente e negligente in quanto ha concretamente posto in pericolo l’incolumità degli ospiti della
struttura presso la quale operava, esponendoli al rischio di contagio dell’infezione da SARS-COV-2 per un periodo assai lungo, essendosi protratto per diversi mesi dall’anno 2020 fino al marzo 2021.
Ciò dimostra una sostanziale indifferenza non solo rispetto alle disposizioni dell’autorità e del datore di lavoro, ma anche rispetto alle possibili conseguenze della propria condotta, avendo ritenuto la […] di privilegiare lo svolgimento della propria attività professionale a totale discapito di un interesse certamente superiore come quello della pubblica incolumità, e in particolare della salute di soggetti notoriamente fragili come gli ospiti delle strutture sanitarie, socio-sanitarie o socio-assistenziali residenziali o semiresidenziali, anche esponendo la società a conseguenze negative sul piano dell’immagine e della protrazione del convenzionamento con il sistema sanitario”.
Il reclamo è stato dunque accolto e la risoluzione dichiarata legittima.