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Obbligo di repechage nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo: al lavoratore non spetta la formazione per l’eventuale ricollocamento in azienda
Cass. Sez. Lav. ordinanza n. 10627 del 19 aprile 2024.
Sonia Gallozzi, consulente giuslavorista Sede Nazionale
L’interessante pronuncia in epigrafe affronta il caso di un operaio addetto al reparto calzature che, a seguito di un calo dell’attività e del fatturato, veniva licenziato per soppressione del reparto magazzino e conseguentemente della sua mansione. L’operata risoluzione veniva da questi impugnata, ma la Corte territoriale, confermando la pronuncia di primo grado, riteneva pacifica la sussistenza delle ragioni organizzative poste alla base del licenziamento, escludeva qualsivoglia profilo discriminatorio e considerava adempiuto l’obbligo di repêchage (ossia un eventuale ricollocamento del lavoratore da licenziare in un’altra posizione aziendale, offrendo anche eventuali mansioni inferiori) da parte della società datrice di lavoro in quanto le mansioni del lavoratore licenziato (operaio addetto al reparto calzature) non potevano ritenersi fungibili con quelle di addetto alla vendita; nè erano fungibili con quelle degli stagisti, dal momento che le finalità dello stage dovevano ritenersi del tutto diverse da quelle di un rapporto di lavoro; le posizioni relative ad assunzioni a tempo determinato nel semestre successivo al licenziamento non potevano essere proposte al lavoratore in quanto di natura precaria (tali assunzioni, effettuate per esigenze temporanee, si sarebbero infatti esaurite nell’arco di pochi mesi); l’unica assunzione a tempo determinato effettuata per un lasso di tempo più lungo (un anno) era avvenuta per il ruolo di “addetta al web”, mansione che era del tutto estranea a quella del lavoratore e che richiedeva come tale un bagaglio formativo del tutto differente.
Impugnava la pronuncia innanzi la Corte di Cassazione l’ex dipendente, ribadendo che le sue mansioni fossero fungibili rispetto a quelle impiegatizie sopra riportate e che – in ogni caso –alla luce del novellato art. 2103 c.c.- sussistesse un obbligo formativo della datrice di lavoro nei suoi confronti, al fine di potergli consentire una proficua adibizione alle nuove e diverse mansioni.
Investita così della questione, la Corte precisava che, anche nella vigenza dell’art. 2103 c.c. così come novellato dal Jobs Act, il repêchage opera esclusivamente nell’alveo della fungibilità delle mansioni in concreto attribuibili al lavoratore. Il datore di lavoro, pertanto, non ha alcun obbligo di provvedere alla formazione finalizzata alla ricollocazione del dipendente. Nel fissare tale principio, essa teneva conto che, nella verifica circa l’esistenza di posizioni vacanti, non fosse consentito considerare quelle che non riferibili in alcun modo alla professionalità del singolo lavoratore. Nel caso di specie, peraltro, l’unica posizione che poteva essere presa in considerazione riguardava un’assunzione a tempo determinato per mansioni di “addetto al web” rientranti in una categoria professionale (impiegatizia) diversa da quella posseduta dal lavoratore (operaia) e implicanti, all’evidenza, competenze del tutto differenti dal bagaglio formativo e professionale del lavoratore stesso. La Corte delineava dunque una distinzione tra l’operatività dell’art. 2103 c.c. in tema di ius variandi e quella dell’obbligo di repêchage escludendo, in particolare, che il datore di lavoro, nell’assolvimento del repêchage, fosse tenuto a provvedere alla riqualificazione del lavoratore. E ciò in applicazione di quel necessario bilanciamento tra interessi costituzionalmente protetti riassunto nel principio, più volte espresso, per cui l’obbligo di repêchage deve trovare un limite nella ragionevolezza dell’operazione e non deve comportare rilevanti modifiche organizzative, ampliamenti di organico o innovazioni strutturali non volute dall’imprenditore. Peraltro è ormai consolidato in giurisprudenza l’orientamento secondo cui, nel contesto di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’obbligo di repêchage non possa far sorgere anche un obbligo formativo del lavoratore in esubero in quanto ciò imporrebbe al datore di lavoro “un ulteriore obbligo economico” (si veda, ex multis, T. Roma, sentenza n. 24/7/2017). Diversamente, sul datore di lavoro graverebbero costi economici per la formazione incompatibili con le esigenze imprenditoriali, tanto più incidenti in fase di riorganizzazione e soppressione delle posizioni di lavoro.
Sul punto, proprio tale sentenza riteneva infatti che “l’aggravamento dell’onere gravante sul datore di lavoro in ordine all’impossibilità di repêchage anche rispetto a mansioni inferiori, determinato dall’entrata in vigore dell’art. 2103 c.c. non può tuttavia ritenersi assoluto: il datore di lavoro sarà tenuto ad allegare e dimostrare la mancata disponibilità di posizioni corrispondenti allo stesso livello e categoria di inquadramento del lavoratore, purché si tratti però di mansioni libere, che non necessitino cioè di idonea formazione, in quanto l’obbligo formativo è stato configurato nel nuovo testo dell’art. 2103 c.c. come conseguenza della scelta unilaterale del datore di lavoro. In un contesto relativo alla sussistenza di ragioni organizzative e produttive idonee a giustificare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’obbligo di attribuire al lavoratore mansioni che necessitino di adeguata formazione significherebbe infatti imporre al datore di lavoro un ulteriore costo economico”.
Per i motivi sopra enunciati, la Suprema Corte respingeva il ricorso del lavoratore.