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Legittimo il licenziamento del dipendente che viola reiteratamente le norme aziendali su abbigliamento e acconciature
Cass. Sez. Lavoro ordinanza n. 17267 del 4 luglio 2024.
Sonia Gallozzi, consulente giuslavoristico Sede Nazionale
Nella recentissima pronuncia in oggetto è stato affrontato il caso di un lavoratore (passato dalle mansioni di portantino a quelle di operatore sanitario ausiliario) a cui erano stati contestati addebiti disciplinari di reiterata inosservanza delle disposizioni regolamentari di divieto, per il personale a diretto contatto con i pazienti della R.S.A., di indossare in servizio monili (vistosa catena a larghe maglie al collo, anelli, un grosso bracciale e un voluminoso orologio tutti di metallo) o acconciature (un lungo pizzetto al mento), in quanto veicoli di contagio per pazienti fragili e immunodeficienti.Per tali motivi la struttura procedeva con la risoluzione del rapporto per giusta causa.
Con sentenza, la Corte d’appello di Roma – in accoglimento del reclamo principale della struttura–riteneva legittimo il licenziamento disciplinare, intimato al lavoratore. L’esito del secondo grado aveva di fatto ribaltato quello del primo che, in esito al rito Fornero, aveva accolto la tesi della ritorsività del recesso unilaterale, in quanto rappresentante sindacale.
Il lavoratore impugnava dunque innanzi la Corte di Cassazione la pronuncia, la quale, in pieno accoglimento delle tesi datoriali, respingeva le istanze del ricorrente.
Ed infatti con un’articolata e complessa motivazione, in cui la Cassazione ha fatto nuovamente chiarezza – dal lato giuridico e da quello fattuale – sull’ampio tema del licenziamento nullo, ribadendo il proprio consolidato orientamento in riferimento agli elementi che connotano – rispettivamente – le distinte fattispecie del licenziamento ritorsivo e del licenziamento discriminatorio (congiuntamente invocate dal dipendente), ha in sostanza ribadito la bontà delle conclusioni del giudice di secondo grado.
Ha quindi ribadito il principio di diritto in tema di licenziamento ritorsivo (comportamento del lavoratore non gradito ma lecito), per cui: “l’accertamento della sua nullità è subordinata alla verifica che l’intento di vendetta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di risolvere il rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, rispetto ai quali va quindi escluso ogni giudizio comparativo (Cass. 7 marzo 2023, n. 6838)”, precisando che nel caso di specie risultava non dimostrata e comunque allegata soltanto in maniera generica la natura discriminatoria del licenziamento, così come quella ritorsiva (che, quand’anche sussistente, non sarebbe stata esclusiva, posta l’effettiva sussistenza dei comportamenti di cui sopra).
La Cassazione dava dunque rilievo alla circostanza che la Corte di appello avesse accertato una “persistente volontà di disattendere le prescrizioni aziendali”, e ha inoltre, anche senza una formale contestazione di recidiva, “correttamente apprezzato la rilevanza della reiterazione della condotta”.
Concludendo, acclarata la violazione ripetuta delle norme disciplinari e aziendali sull’abbigliamento e sulle acconciature di barba e capelli, la Cassazione ha deciso per il rigetto del ricorso e per la condanna del lavoratore ricorrente alla rifusione, in favore del datore di lavoro, alle spese del giudizio.
QUI per la pronuncia.