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L’Ispettorato del Lavoro non può imporre al datore un diverso inquadramento dei dipendenti
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L’Ispettorato del Lavoro non può imporre al datore un diverso inquadramento dei dipendenti

TAR Friuli Venezia Giulia Sez. I – sentenza n. 155 del 18 maggio 2021

Sonia Gallozzi, consulente giuslavorista Sede nazionale

La sentenza in commento si pronuncia su un ricorso proposto da un’azienda avverso un verbale dell’Ispettorato del Lavoro con cui veniva disposto l’inquadramento di alcuni dipendenti ad altro livello rispetto a quello riconosciuto dal datore di lavoro.

Quest’ultimo impugnava il provvedimento, deducendo, tra i vari motivi, che il potere di disposizione fosse stato esercitato dall’ITL esorbitando dai limiti fissati dall’art. 14 del D.lgs. 124 del 2004 che espressamente statuisce “Il personale ispettivo dell'Ispettorato nazionale del lavoro può adottare nei confronti del datore di lavoro un provvedimento di disposizione, immediatamente esecutivo, in tutti i casi in  cui le irregolarità rilevate in materia di lavoro e legislazione sociale non siano già soggette a sanzioni penali o amministrative […]”.

Il TAR, in seguito ad approfondita disamina, ha ritenuto di accogliere il ricorso ed annullare il provvedimento ispettivo.

Ed infatti ha innanzitutto chiarito che il tipo di violazione contestata - l’inquadramento dei lavoratori in una categoria contrattuale diversa da quella asseritamente spettante, in forza delle mansioni esercitate, secondo il C.C.N.L. applicabile – non rientra tra le “irregolarità (…) in materia di lavoro e legislazione sociale” che possono essere contestate dall’Ispettorato nell’esercizio del potere di disposizione.

Nella consapevolezza di porsi in contrasto con la diversa lettura della disposizione fatta propria dall’I.N.L. con circolare n. 5 del 30 settembre 2020, il Tribunale amministrativo ha rilevato che contro tale interpretazione militano una pluralità di argomenti.

Dal punto di vista letterale, la norma parla di “irregolarità”, termine con il quale si è soliti definire una difformità rispetto alla fattispecie legale, priva di espressa sanzione giuridica (come del resto specificato dalla stessa norma, che esclude i casi in cui le irregolarità “siano già soggette a sanzioni penali o amministrative”). Deve trattarsi, quindi, della violazione di norme c.d. “imperfette”, che al comando giuridico non accompagnino alcuna sanzione. L’adibizione del lavoratore a mansioni non corrispondenti alla categoria di inquadramento di cui al C.C.N.L. corrisponde, invece, ad una condotta di inadempimento di un obbligo di fonte legale - sancito dall’art. 2103 c.c., secondo cui “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto …” (comma 1) - e presidiato da uno speciale meccanismo di tutela, in forza del quale “nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e l'assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi” (comma 7).

Nel caso di adibizione di fatto a mansioni superiori rispetto al proprio inquadramento, l’art. 2103 c.c. prevede già un particolare meccanismo di tutela davanti all’autorità giudiziaria, fondato sul riconoscimento del diritto alla stabilizzazione della categoria contrattuale corrispondente alle superiori mansioni esercitate.

A ciò si aggiunga – specifica il TAR – che, attraverso tale “abnorme” provvedimento, intervenendo in via autoritativa su un rapporto contrattuale, in supplenza della parte direttamente titolare dell’interesse (il lavoratore), pur non avendo tale interesse una diretta rilevanza pubblicistica, l’Ispettorato ha sindacato l’esercizio del potere direttivo del datore, imponendogli, sotto la minaccia della sanzione pecuniaria, di dare al rapporto, in via permanente, una determinata conformazione. “Ciò che la misura ha realizzato è, di fatto, l’accertamento di un rapporto giuridico tra privati in via amministrativa, per effetto di un potere unilaterale, senza le garanzie proprie della giurisdizione”.

Oltretutto, non avendo il verbale valore di giudicato, anche a fronte di un esito “favorevole” (in via riflessa) del giudizio amministrativo, il lavoratore non troverebbe adeguata tutela qualora il datore persistesse nell’inottemperanza, senza modificare l’inquadramento contrattuale in conformità all’ordine di disposizione. Egli dovrebbe infatti necessariamente agire di fronte al giudice naturale (il Tribunale in funzione di giudice del lavoro), l’unico in grado di intervenire in via diretta sul rapporto giuridico, chiedendo il riconoscimento della diversa qualifica spettante secondo il C.C.N.L. e il pagamento delle conseguenti differenze retributive.  

Il provvedimento di disposizione, applicato per contestare la categoria di inquadramento, si rileverebbe, quindi, strumento del tutto ineffettivo sul piano della tutela dell’interesse del lavoratore e al contempo rischierebbe inoltre di provocare la frequente sovrapposizione di attività processuale sul medesimo oggetto, da parte di tribunali appartenenti a diverse giurisdizioni, con un evidente spreco di risorse e con il rischio di pronunce tra loro contrastanti. 

Per tali motivi, il TAR ha annullato il citato verbale ispettivo.

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