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Notizie dalla Liguria

Professioni sanitarie. Firmato il decreto attuativo che istituisce i nuovi albi

Decreto attuativo della legge n. 3 del 2018

È stato firmato dal Ministro della Salute Beatrice Lorenzin il primo decreto attuativo della legge n. 3 del 2018, meglio conosciuta come la legge che ha riformato il sistema ordinistico delle professioni sanitarie in Italia. Si tratta del decreto che istituisce gli albi delle 17 professioni sanitarie, fino ad oggi regolamentate e non ordinate, che entreranno a far parte dell’Ordine dei tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione.

Dalla privacy alla cybersecurity, le strutture cercano nuove figure

AAA cercasi ortopedici, anestesisti, geriatri e fisiatri. Ma anche figure nuove per la sanità italiana

AAA cercasi ortopedici, anestesisti, geriatri e fisiatri. Ma anche figure nuove per la sanità italiana, in grado di tutelare la privacy e i dati sanitari dei pazienti, o difendere le strutture dai cyberattacchi informatici. La sanità sta cambiando volto, anche quella privata. "Con l'espansione del settore delle cure per gli anziani, negli ospedali e nelle Rsa queste figure tradizionali sono molto richieste. Ma accanto a loro vediamo anche emergere la domanda di professionalità nuove, con competenze trasversali". Parola del direttore generale di Aiop, Filippo Leonardi, che con l'Adnkronos Salute fa il punto sulle professioni più gettonate dalle aziende e dai gruppi del settore nel nostro Paese.
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Notizie Aiop Nazionale

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La crisi del National Healthcare Service e la falsa soluzione della premier inglese

Una lezione utile per tutti

Alberta Sciachì, Ufficio rapporti internazionali

É di questi giorni la notizia che la premier Theresa May, in occasione del settantesimo compleanno del National Healthcare Service del prossimo luglio, ha annunciato un significativo aumento del finanziamento per il servizio sanitario fortemente in crisi, tanto da non essere più in grado di fare fronte all’invecchiamento della popolazione ed all’aumento del costo di farmaci e nuove tecnologie. L’insoddisfazione dei cittadini è britannici è in costante aumento nell’ultimo decennio ed ha ora raggiunto il suo massimo. Si tratta di problemi comuni a molti Paesi sviluppati dell’Europa occidentale che stanno cercando di affrontare la crisi del modello di welfare sanitario, nella crescente impossibilità di “garantire tutto a tutti”, principio su cui era basato il modello sanitario inglese.
Quale soluzione avrebbe trovato la May per aumentare gli stanziamenti al servizio pubblico da 130 a 150 miliardi di sterline in quattro anni? La premier ha affermato in un’intervista che tali stanziamenti supplementari potranno essere realizzati in base ai risparmi conseguenti alla Brexit ed, in effetti, tale argomento è stato più volte richiamato nella campagna elettorale, che ha preceduto il referendum per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. La sua affermazione è stata però immediatamente smentita da più parti ed è effettivamente contraddetta dalla circostanza che Londra è impegnata comunque a pagare la quota dovuta fino al 2020, o forse anche 2021, per almeno 39 miliardi. Nessun dividendo, dunque, è maturato in seguito alla Brexit, come ha affermato il direttore dell’Institute for fiscal studies, il più autorevole think-tank nazionale. Forse uscire dall’Ue non è così facile, né così conveniente? Forse non è la soluzione di tutti i mali, nonostante tutte le riserve, talvolta legittime, nei confronti delle istituzioni di Bruxelles? Una riflessione utile a tutti.
Nella stessa intervista la premier riconosce che forse “bisognerà pagare un po’ di più”, cioè aumentare le tasse per finanziare un Servizio sanitario nazionale che ha bisogno di curare se stesso, per sopperire all’insufficienza di personale medico ed infermieristico, alle carenze di posti nei Pronto-soccorsi, all’aumento delle liste di attesa. Anche qui non si tratta di problemi che affliggono solo l’Inghilterra, se consideriamo gli studi dell’Ocse sui bisogni sanitari insoddisfatti e sulla rinuncia alle cure di molti cittadini europei per ragioni economiche, negando nei fatti l’equità di accesso alle prestazioni. Anche la soluzione del ricorso all’aumento delle tasse, più o meno velata e più o meno pesante, non è una novità.
Restano i segnali di allarme, che hanno indotto Walter Ricciardi, Presidente dell’Istituto superiore di sanità e membro autorevole del panel di esperti della Commissione europea, a dichiarare, in un recente articolo pubblicato su Ansa, che “questa è un’epoca di guerra” per l’impoverimento, le diseguaglianze e la difficoltà di curarsi, una guerra nella quale “è prioritario salvare il Servizio sanitario nazionale” in Italia.
Ma come? Il prof. Ricciardi nell’articolo succitato non entra nel merito della questione e di sicuro non esistono soluzioni semplici a problemi tanto gravi e complessi. Esistono, tuttavia, alcune criteri generali, ormai riconosciuti a livello internazionale, che potrebbero contribuire a migliorare concretamente la situazione, se correttamente applicati, al di là delle dichiarazioni di principio, su cui si è tutti d’accordo.
La stessa Ocse analizza costantemente gli sprechi in sanità, rilevando come, in una fase in cui i budget pubblici per la sanità sono ovunque sotto pressione, è allarmante il fatto che circa un quinto della spesa sanitaria offra un contributo minimo o nullo rispetto agli outcome per la salute. Al riguardo, l’Ocse dichiara che i governi potrebbero spendere significativamente meno a parità di benefici, mentre gli sforzi per ottimizzare l’efficienza della spesa sono ancora inadeguati, perché non intervengono sulla governance del sistema nella sua globalità e neppure sull’erogazione e gestione dei servizi, evitando sprechi e costi improduttivi, anche di carattere amministrativo, attraverso alternative più performanti.
La Direzione generale economia e finanza (ECFIN) della Commissione ha esaminato le iniziative più efficaci assunte in alcuni Paesi Ue per controllare la spesa: finanziamento attraverso i Drg, riduzione dei costi grazie all’efficienza di gestione, superamento del ripiano sistematico dei deficit, sviluppo della continuità delle cure, benchmark delle performance degli ospedali, diffusione dell’informatica sanitaria, centralità del paziente, sicurezza, efficienza anche tecnologica, formazione del personale ma anche, e ciò è significativo, autonomia degli ospedali, competizione, privatizzazione, public-private partnership (PPP) e costituzione di catene ospedaliere con riferimento alle economie di scala.
Su quest’ultimo punto è intervenuto autorevolmente il Censis nella sua recente pubblicazione, “Il valore sociale dell’ospedalità privata nella sanità pluralista”, affermando che: “L’ipotesi di un Servizio sanitario a più pilastri è oggi avvertito come un modello che può riampliare la copertura sociale purché, per esempio dal lato dei provider di servizi e prestazioni, siano finalmente aperti spazi agli operatori con più alta capacità gestionale, in grado di contribuire in modo decisivo a innalzare la redditività delle risorse, pubbliche e private, utilizzate.” Tutto ciò, perché, come afferma ancora il Censis, tutelare il Servizio sanitario nazionale come istituzione vuol dire farlo funzionare meglio, considerando la spesa sanitaria come un investimento e non solo come un costo da tagliare. In questa prospettiva l’ospedalità privata italiana ed europea hanno un contributo prezioso da offrire per salvare il welfare sanitario … e forse, è una soluzione migliore che uscire dall’Ue o aumentare le imposte a cittadini, che già faticano a trovare una risposta ai loro bisogni sanitari!



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