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Licenziamento per scarso rendimento legittimo se vi è un notevole inadempimento
Cass. Civ. se. Lavoro n. 20284 del 14 luglio 2023.
Sonia Gallozzi, consulente giuslavorista Sede nazionale
Il licenziamento per “scarso rendimento”, che trae origine da reiterati inadempimenti connessi alla prestazione lavorativa espressamente dedotta nel contratto di lavoro, con una resa lavorativa al di sotto delle minime aspettative, è stata oggetto per anni di altalenante giurisprudenza, che ha reso particolarmente complesso per i datori di lavoro recedere dal rapporto per tale motivazione. Ed invero la giurisprudenza, seppur convalidando tale tipologia di risoluzione, ne ha comunque subordinato la legittimità al ricorrere di precisi requisiti e gravosi oneri probatori per il datore di lavoro, ciò verosimilmente in quanto la prestazione lavorativa è sempre stata ricondotta ad un'obbligazione di mezzi e non di risultato, volta quindi al perseguimento di uno specifico e predeterminato obiettivo che caratterizza, invece, l'obbligazione di risultato tipica del lavoro autonomo.
Orbene, affinché la scarsa produttività configuri un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali - e, in particolare, dell'obbligo di diligenza di cui all'art. 2104 c.c. e possa quindi integrare un legittimo licenziamento per giustificato motivo soggettivo ai sensi dell'art. 3 Legge 604/66, il datore di lavoro dovrà dimostrare, da un lato, che il lavoratore abbia raggiunto un risultato inferiore rispetto alla media delle prestazioni rese dai colleghi con medesima qualifica e mansione e che lo scostamento sia notevole, cioè assuma i caratteri di una “abnorme” sproporzione tra i risultati paragonati e che lo scarso rendimento sia imputabile al dipendente e, dunque, che sia conseguenza diretta di una sua negligenza e non riconducibile a fattori organizzativi o socio ambientali dell'impresa. Inoltre, così come sancito dalla stessa Cassazione, il datore di lavoro dovrà provare che l'anomalo rendimento è riferito ad un arco temporale significativo nel corso del quale è stata richiamata l'attenzione del dipendente circa i propri obblighi di diligenza, anche mediante procedimenti disciplinari (cfr. Cass. n. 3855/2017). Pertanto, la legittimità di questa forma di recesso non potrà prescindere dalla prova, oggettiva, di un rendimento della prestazione inferiore alla media esigibile e, soggettiva, dell'imputabilità dell'insufficienza dei livelli raggiunti alla condotta del dipendente.
Sul punto, si è espressa proprio recentemente la Suprema Corte che, con la pronuncia oggi in commento, ha esaminato il caso di un dipendente licenziato, in origine per giusta causa, per non aver questi raggiunto i risultati espressamente indicati da parte del datore nel suo contratto di lavoro, con obiettivi di produzione periodicamente previsti. Il venditore è stato licenziato dalla società datrice, per scarsa resa produttiva risultante dal confronto dei risultati raggiunti con i target attesi, che ha motivato il provvedimento sulla base di una prestazione insufficiente, conseguente al costante e ripetuto mancato rispetto dei programmi di lavoro concordati.
A seguito di impugnativa del licenziamento, il Tribunale , nello statuire la legittimità, riqualificava il recesso da licenziamento per giusta causa a licenziamento per motivo soggettivo, ordinando quindi all'azienda il pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso ex art. 3 Legge 604/66. La pronuncia veniva confermata dalla Corte di Appello di Roma.
Impugnata la sentenza in Cassazione, anche quest’ultima ribadiva la legittimità dell’operata risoluzione, valorizzando alcuni fatti di rilievo che certamente devono essere tenuti in conto ove il datore di lavoro assuma la determinazione di procedere con una risoluzione per “scarso rendimento”.
Ed infatti chiariva la Corte che “il potere di risolvere il contratto di lavoro subordinato in caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali deriva al datore di lavoro direttamente dalla legge (articolo 3 della L. n. 604 del 1966) e non necessita, per il suo legittimo esercizio, di una dettagliata previsione, nel contratto collettivo o nel regolamento disciplinare predisposto dal datore di lavoro, di ogni possibile ipotesi di comportamento integrante il suddetto requisito, spettando al giudice di verificare, ove si contesti la legittimità del recesso, se gli episodi addebitati integrino l'indicata fattispecie legale. Pertanto, anche se non specificamente previste dalla normativa negoziale, costituiscono ragione di valida intimazione del recesso le gravi violazioni dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quei doveri, cioè, che sorreggono la stessa esistenza del rapporto, quali sono i doveri imposti dagli articoli 2104 e 2105 c.c., e quelli derivanti dalle direttive aziendali (Cass. n. 1305 del 2000; n. 7819 del 2001; n. 12500 del 2003; n. 16291 del 2004; n. 6893 del 2018)” avendo il dipendente, nel caso di specie, posto in essere “un grave inadempimento della prestazione lavorativa, rimproverabile […] a titolo di colpa per la negligenza e l'imperizia con cui aveva eseguito le mansioni di sua pertinenza, dato l'oggettivo divario tra il suo rendimento e le soglie produttive previste dal programma aziendale di produzione”.
Inoltre la pronuncia valorizzava la reiterazione dei fatti, intesi non quali recidiva in senso tecnico, ma come mera ripetizione della condotta in sé considerata, che “non è irrilevante, incidendo comunque sulla gravità del comportamento posto in essere dal lavoratore, che, essendo ripetuto nel tempo, realizza una più intensa violazione degli obblighi del lavoratore e può, pertanto, essere comunque sanzionato in modo più grave (Cass. n. 22162 del 2009)”.
Per tali motivi la Corte respingeva il ricorso proposto dall’ex dipendente, confermando ancora una volta la legittimità della risoluzione.